Italy’s demographic trap: Voting for childcare subsidies and fertility outcomes
Koka K., Rapallini C., 2022 – European Journal of Political Economy
L’Italia è oggi uno dei paesi OCSE che sta invecchiando più rapidamente, grazie all’allungamento delle aspettative di vita e a cinquant’anni di tassi di fecondità totale decrescente. Il minimo storico era stato raggiunto nel 1995, quando fu registrata una media di 1,19 figli per donna. Nel 2008-2010 si è raggiunto il massimo storico del periodo, pari a una media di 1,44, mentre nel 2020 la media è calata nuovamente (1,24 per le donne residenti in Italia e 1,17 per le donne di cittadinanza italiana). La pandemia poi ha esercitato ulteriori effetti negativi sulla natalità (in parte attribuibili alla diminuzione dei concepimenti a partire dal secondo bimestre 2020), il cui calo si è protratto in modo molto marcato per i primi sette mesi del 2021 e, in base ai primi dati provvisori 2022, tale denatalità non intende decelerare: nel primo trimestre si contano circa diecimila nati in meno rispetto allo stesso periodo del biennio pre-pandemico (2019-2020) con la previsione per il 2022 di un nuovo record negativo di sole 385mila nascite. Il pericolo per un paese con così bassa fecondità come l’Italia è quello di finire in un circolo vizioso di sempre più bassa fecondità e sempre più rapido invecchiamento della popolazione. Infatti, secondo dati ISTAT recenti, gli ultrasessantacinquenni (23,2 per cento del totale) hanno superato i giovani sotto i 24 anni, che si assestano al 22,8 per cento della popolazione. Una popolazione che invecchia perché caratterizzata da un’età media sempre più elevata modifica la composizione per età dell’elettorato e le preferenze di voto rispetto alle politiche per l’assistenza all’infanzia. Questo può quindi influire (negativamente) sulla possibilità che le risorse pubbliche siano destinate a politiche a sostegno della natalità e alle famiglie con figli, determinando quella che può essere denominata una trappola demografica.
Katerina Koka e Chiara Rapallini, nello studio Italy’s demographic trap: Voting for childcare subsidies and fertility outcomes, recentemente pubblicato sullo European Journal of Political Economy, mostrano come l’Italia sia effettivamente caduta in una trappola demografica. I sussidi per l’infanzia, intesi come risorse pubbliche destinate a coprire una parte dei costi necessari a crescere un bambino, sono una politica che si può utilizzare per favorire le scelte di fecondità delle giovani coppie e la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Ma, come capita spesso in questi casi, le politiche che comportano nuove o maggiori uscite del bilancio pubblico, e che quindi necessitano di essere finanziate con nuove o maggiori entrate, hanno successo solo se la maggioranza degli elettori pensa di trarne un vantaggio. Guardando alle differenti coorti per età degli elettori, i sussidi per l’infanzia hanno un impatto sia diretto sia indiretto. Per fare un esempio, un aumento dei sussidi per l’infanzia riduce il costo per crescere i figli e, quindi, comporta un beneficio diretto per le coorti di elettori più giovani, che sono nelle fasi iniziali della loro vita lavorativa. Al contrario, le coorti più anziane possono opporsi a un incremento delle risorse destinate a questi interventi perché non solo non ne beneficiano direttamente, ma sopportano l’accresciuta pressione fiscale necessaria a coprire la spesa (nell’ipotesi che si voglia mantenere l’equilibrio di bilancio). Allo stesso tempo, se i sussidi per l’infanzia modificano le scelte di fecondità delle giovani coppie, e portano a una crescita della popolazione, quest’ultima porterà con sé un cambiamento dei prezzi, della tassazione e delle pensioni, e questi effetti indiretti coinvolgeranno tutta la popolazione, indipendentemente dall’età, soprattutto in paesi con sistemi pensionistici pubblici e a ripartizione. Per calcolare l’effetto netto di una politica a favore dell’infanzia, comprensivo di effetti diretti e indiretti, è quindi necessaria un’analisi quantitativa degli effetti netti sulle diverse coorti di popolazione, giovani e anziani, per diversi livelli di sussidi.
Le autrici hanno sviluppato un’analisi quantitativa di questo tipo, calcolando gli effetti netti di un incremento della spesa per i sussidi all’infanzia per diversi coorti di popolazione in Italia grazie a un modello che simula il ciclo di vita di un individuo rappresentativo di diverse coorti di età (chiamato computable life-cycle model). Hanno calibrato il modello sui parametri che caratterizzano l’economia italiana e hanno simulato scenari di politiche economiche alternative. La loro analisi tiene conto del fatto che le scelte di fecondità hanno una probabilità di successo che diminuisce con l’età della donna, per annullarsi oltre i 49 anni, e che in aggregato all’aumentare dell’età media della donna al primo figlio si riduce la fecondità. In pratica, il modello che le autrici hanno adottato consente di simulare gli effetti, diretti e indiretti, di breve e lungo periodo, di diversi incrementi dei sussidi all’infanzia finanziati con diverse combinazioni di tassazione del reddito da lavoro, da capitale e modifiche alla contribuzione pensionistica. Infine, lo studio include la simulazione del sostegno politico che le diverse politiche economiche, ovvero le diverse coperture possibili di un incremento della spesa pubblica destinata all’infanzia, potrebbero riscuotere su un elettorato che ha la composizione per età dell’attuale popolazione italiana.
Lo studio mostra l’impatto positivo di un incremento di risorse destinato all’infanzia sulla fecondità totale nel lungo periodo. In particolare, una crescita della spesa per sussidi all’infanzia del 10 per cento porterebbe a un aumento del tasso di crescita della popolazione di 0,47–0,70 punti percentuali, a seconda delle modalità di finanziamento adottate. Infatti, nonostante i maggiori sussidi all’infanzia comportino un incremento della tassazione sul reddito, e quindi una riduzione del reddito disponibile, la simulazione mostra un effetto complessivo positivo sul numero di figli per donna in tutte le coorti di età e una natalità totale più alta. Inoltre, l’incremento dei sussidi all’infanzia farebbe aumentare il numero medio di figli per donna nelle coorti più giovani rispetto a quelle più anziane, come dimostra la Figura 1.
In altre parole, uno degli effetti diretti dei maggiori sussidi sarebbe la nascita di più bambini nelle famiglie più giovani e più fertili. Le autrici mostrano, inoltre, che nel lungo periodo maggiori sussidi all’infanzia comporterebbero un beneficio (welfare) generalizzato, anche se la dimensione di questo effetto benefico dipende dal tipo di redistribuzione che avviene tra generazioni diverse: in particolare, i benefici sono maggiori quando l’incremento dei sussidi all’infanzia è finanziato combinando un incremento della tassazione sul reddito da lavoro, da capitale e una riduzione dei contributi pensionistici.
Rispetto allo scenario politico, lo studio mostra come, indipendentemente dalla combinazione di politiche adottate per finanziare un aumento dei sussidi all’infanzia, la maggioranza dell’elettorato non sarebbe a favore di una politica come questa. Detto altrimenti, in un’economia con una popolazione sempre più anziana – come quella Italiana – la maggioranza degli elettori non vota a favore di interventi che riducono il costo del crescere bambini, e quindi a favore di un aumento della fecondità totale, anche se nel lungo periodo questo tipo di politica porterebbe beneficio a tutti. Questo è il motivo per cui l’Italia si trova in un circolo vizioso, ossia in una situazione nella quale la maggioranza degli elettori preferisce vivere con bassi sussidi all’infanzia/bassa crescita della popolazione/bassa crescita dell’economia.
Lo studio ha come obiettivo ultimo quello di rendere più consapevole il largo pubblico rispetto al rischio di una trappola di questo tipo. Le autrici sottolineano l’importanza di prestare attenzione alle implicazioni in termini demografici quando si discute degli usi alternative delle risorse pubbliche. Ad esempio, una proposta discussa molte volte in Italia è la re-introduzione della tassazione del reddito da proprietà immobiliare relativa alla prima casa. Questa politica avrebbe un effetto particolarmente pesante per le generazioni più anziane, in larga misura proprietarie della prima casa, e questa è una delle ragioni che ne spiegano lo scarso consenso. Tuttavia, se le risorse derivanti fossero impiegate per sostenere la fecondità, l’effetto di lungo periodo sarebbe positivo e l’onere tributario potrebbe essere percepito come meno oneroso. Infine, oltre agli effetti di breve e lungo periodo evidenziati dal modello adottato nello studio, un incremento delle risorse destinate all’infanzia avrebbe effetti generali che vale la pena menzionare. Innanzitutto, in Italia – come negli altri paesi europei a bassa fecondità – le giovani coppie dichiarano di desiderare il secondo figlio, anche se la maggior parte di esse si ferma al primo, e spesso ciò accade perché la nascita del primo figlio è stata posposta troppo in avanti. In altri termini, questa politica aiuterebbe una parte della popolazione a realizzare un proprio desiderio di vita. In secondo luogo, ci sono degli effetti dell’incremento dei sussidi all’infanzia che non sono considerati nello studio di Koka e Rapallini, ma che sono prevedibili sia in termini di bilancio pubblico sia di funzionamento del mercato del lavoro. A proposito del primo, una popolazione mediamente più giovane comporterebbe una riduzione in termini relativi della spesa pubblica, non solo pensionistica ma anche sanitaria. Per quanto riguarda il secondo, aumentare i sussidi per l’infanzia è una politica che, favorendo la partecipazione femminile al mercato del lavoro, lo renderebbe più bilanciato in termini di genere.