Fiscal devaluation and relative prices: evidence from the Euro area
Arachi G., Assisi D., 2020 – International Tax and Public Finance.
È possibile riformare il nostro sistema fiscale per favorire la crescita economica?
Da diversi anni le organizzazioni internazionali come l’OCSE e la Commissione Europea sostengono che sia effettivamente possibile ordinare le varie imposte a seconda dei loro effetti sull’economia: da quelle che sono ritenute più dannose per la crescita, le imposte sul capitale e sul lavoro, a quelle che appaiono più neutrali, come le imposte sui consumi e sul patrimonio, suggerendo quindi di spostare il carico fiscale dalle prime alle seconde. In particolare, la Commissione Europea nelle sue raccomandazioni annuali ha più volte invitato il nostro paese a procedere ad un ribilanciamento delle imposte (cosiddetto tax shift) mediante una riduzione del prelievo sul lavoro compensata da un aumento dell’IVA. Il canale attraverso il quale lo scambio imposte sul lavoro/IVA dovrebbe favorire la crescita è l’aumento di competitività per le nostre imprese. Infatti, come già osservato da Keynes negli anni ’30 la variazione delle imposte può in teoria riprodurre gli effetti di una svalutazione del cambio nominale.
Per comprendere il meccanismo di tale ribilanciamento, noto in letteratura come “svalutazione fiscale”, si consideri una riduzione dei contributi a carico dei datori di lavoro compensata da un aumento dell’IVA. Nel breve periodo, data la rigidità dei salari nominali fissati dai contratti, la riduzione dei contributi sociali a carico dei datori di lavoro dovrebbe tradursi in un abbassamento del costo del lavoro, riversando i suoi effetti sui beni prodotti sul territorio nazionale destinati sia al mercato interno che all’esportazione. L’aumento dell’IVA colpirebbe invece tutti i beni consumati dai residenti, sia provenienti da produzione interna che da importazioni. Non ne sarebbero invece colpite le esportazioni, non imponibili ai fini IVA. Complessivamente, quindi, si realizzerebbe un aumento del costo dei beni importati rispetto ai beni prodotti sul territorio nazionale.
La possibilità di poter replicare gli effetti di una svalutazione del cambio nominale è ovviamente una prospettiva particolarmente interessante per i paesi in un regime di cambi fissi o che, come l’Italia, fanno parte di un’unione monetaria. Tuttavia, sebbene la teoria appaia convincente, la letteratura empirica non è ancora in grado di confermare se e in che misura una svalutazione fiscale possa tradursi effettivamente in un miglioramento delle ragioni di scambio di un paese.
Un recente lavoro di Giampaolo Arachi e Debora Assisi, Fiscal devaluation and relative prices: evidence from the Euro area,pubblicato su International Tax and Public Finance contribuisce a colmare questa lacuna analizzando gli effetti di variazioni dei contributi sociali e dell’IVA negli 11 paesi che hanno aderito all’unione monetaria europea sin dal 1999.
Lo studio dimostra che quando le riforme fiscali dei paesi nella zona euro si muovono in direzioni opposte, con un paese che svaluta fiscalmente mentre i suoi partner commerciali realizzano una rivalutazione fiscale, si verifica effettivamente nel breve periodo un deprezzamento sia del tasso di cambio reale effettivo che delle ragioni di scambio in accordo con quanto previsto dalla teoria. In media, tuttavia, gli effetti sono piuttosto deboli tanto che in alcuni casi non si può statisticamente escludere che siano diversi da zero. Coerentemente, si osserva un miglioramento, sempre in media fra i paesi, delle esportazioni nette, ma anche in questo caso l’effetto non è statisticamente significativo. Per tutte le variabili studiate, infine, gli effetti si annullano totalmente nel lungo periodo.
Il lavoro evidenzia tuttavia che gli effetti risultano essere significativamente diversi nei singoli paesi. Queste differenze sono illustrate dalla Figura 1.
Figura 1. Effetti specifici per-paese di una svalutazione fiscale
Per l’Italia, ad esempio, a differenza di tutti gli altri paesi, non si osserva un deprezzamento del tasso di cambio reale effettivo nel breve periodo. Un deprezzamento statisticamente significativo si trova, invece, per la Finlandia e l’Irlanda. Risultati ancor più eterogenei si osservano per le ragioni di scambio, che non evidenziano una chiara tendenza verso un deprezzamento di breve periodo. Per quel che riguarda le esportazioni nette, infine, per quasi tutti i paesi si osserva un effetto positivo della politica fiscale. Una eccezione è l’Irlanda, per la quale, nonostante il significativo deprezzamento del tasso di cambio reale effettivo, la bilancia commerciale peggiora nel breve periodo. Guardando agli effetti di lungo periodo, questi in generale si muovono in direzioni opposte rispetto a quelli di breve periodo, a conferma che l’impatto della svalutazione, anche quando coerente con quanto previsto dalla teoria, tende ad attutirsi o anche invertirsi con il passare del tempo.
Concludendo, lo studio mostra che le predizioni teoriche sulla svalutazione fiscale non trovano una conferma definitiva nei dati reali. Gli effetti, sia sui prezzi relativi che sulle quantità, sono infatti piuttosto deboli. Ancor più importante, l’impatto della svalutazione è molto eterogeneo fra i vari Paesi. Da questo discendono due indicazioni per la politica economica. La prima è che l’utilizzo della leva della svalutazione fiscale deve essere valutato sulla base delle caratteristiche del singolo Paese. Per l’Italia gli effetti sembrano complessivamente positivi, con un miglioramento delle esportazioni nette nel breve periodo. La seconda è che, anche nei casi in cui appare utile, la svalutazione fiscale non sembra poter dare un contributo risolutivo per il recupero di competitività internazionale.