Gender wage and longevity gaps and the design of retirement systems
Barigozzi F., Cremer H., Lozachmeur J.-M., 2023 – Journal of Economic Behavior & Organization
In media, le donne vivono più a lungo degli uomini, ma avendo guadagnato di meno durante la loro vita attiva, tendono ad avere meno risparmi al momento del pensionamento. Di conseguenza, le donne sono a maggior rischio di povertà nella terza età rispetto agli uomini.
Il divario di genere nella longevità si è ridotto negli ultimi decenni ma continua ad essere significativo. Tra le nazioni dell’OCSE, la differenza nell’aspettativa di vita alla nascita è attualmente di circa quattro/sei anni. Il divario nel reddito da lavoro è sintetizzato dal “gender wage gap”: in media, le donne europee ricevono un salario orario inferiore rispetto a quello degli uomini di circa il 15%. Più avanti nella vita, il divario salariale si traduce in un divario pensionistico di genere del 37%.
I sistemi pensionistici riescono a ridurre, almeno in parte, le disuguaglianze indotte dal gap di genere nel reddito da lavoro. L’importanza della solidarietà e della redistribuzione è stata recentemente confermata dall’Unione Europea (“Resolution of 14 June 2017 on the need for an EU strategy to end and prevent the gender pension gap”). Di conseguenza, in molti Stati membri, sono ancora concessi alle donne diritti pensionistici in virtù delle attività di cura svolte durante la vita attiva (in particolare, premi per la cura dei figli e soglie specifiche di età minima per il pensionamento).
Tuttavia, questo trattamento differenziale per le donne è sempre più messo in discussione da chi sostiene la neutralità di genere. A livello dell’UE, la Direttiva 2006/54/CE (che a sua volta segue la Direttiva 96/97/CE) promuove il trattamento paritario nei regimi di welfare e vieta la discriminazione (di genere). Tale divieto riduce la possibilità di redistribuire risorse dai lavoratori alle lavoratrici attraverso le politiche di welfare. In particolare, il Capitolo 2, articolo 9, della Direttiva afferma che “Le disposizioni contrarie al principio di parità di trattamento includono quelle basate sul sesso, direttamente o indirettamente, […] come nel caso di età pensionabili diverse […] o diverse condizioni per la concessione dei benefici pensionistici.” Seguendo la Direttiva, tutti gli Stati membri hanno ridotto le differenze di genere nell’età minima per il pensionamento e nei benefici pensionistici. Alcuni paesi hanno applicato la regola della parità di genere alle età per il pensionamento (Austria, Belgio, Danimarca e Germania, tra gli altri); altri paesi applicano deroghe secondo l’articolo 141(4) del Trattato e continuano a compensare le donne per il tempo di cura dedicato ai figli (ad esempio Bulgaria, Francia, Italia, Lituania, Slovenia).
La Direttiva dell’UE dà per scontato che la redistribuzione dovrebbe essere in favore delle donne. Tuttavia, non è chiaro quale sia la “direzione” appropriata e l’entità della redistribuzione tra uomini e donne in una società in cui le donne vivono più a lungo ma hanno redditi da lavoro inferiori. Un’altra questione aperta riguarda l’implicazione delle regole di “parità di trattamento” che richiedono la neutralità di genere nel regime pensionistico. Sebbene essa sia desiderabile in termini di “equità orizzontale”, imporre la neutralità di genere in una società in cui uomini e donne differiscono per caratteristiche cruciali come l’aspettativa di vita e le opportunità di guadagno riduce necessariamente il benessere sociale. Ma, come saranno influenzati i diversi gruppi (uomini e donne, single oppure conviventi) dalla regola della neutralità di genere?
Francesca Barigozzi, Helmuth Cremer e Jean-Marie Lozachmeur si pongono l’obiettivo di rispondere a queste domande nell’articolo intitolato “Gender wage and longevity gaps and the design of retirement systems”, recentemente pubblicato sul Journal of Economic Behavior and Organization.
Gli autori propongono un modello teorico per studiare la struttura ottimale dei benefici pensionistici per i lavoratori e le lavoratrici. Le donne vivono più a lungo degli uomini ma ottengono un reddito da lavoro inferiore. Gli individui possono essere single o formare coppie dove i redditi da lavoro e i consumi sono condivisi. La funzione del benessere sociale è utilitaristica. Tuttavia, per rendere desiderabile la redistribuzione tra individui con diversa aspettativa di vita, le utilità individuali subiscono una trasformazione concava e crescente.
Gli autori derivano la direzione ottimale della redistribuzione e mostrano come essa cambia quando viene applicata la regola della neutralità di genere. Quando gli individui sono single, la soluzione utilitaristica (senza trasformazione concava delle utilità individuali) implica la redistribuzione dai lavoratori alle lavoratrici. Quando la trasformazione è sufficientemente concava, la direzione della redistribuzione ottimale può essere invertita oppure no. Quando gli individui vivono in coppia e la trasformazione delle utilità individuali è sufficientemente concava, allora è sempre ottimale redistribuire dalle lavoratrici verso i lavoratori.
Applicare la regola della neutralità di genere significa imporre che i regimi pensionistici siano autoselezionanti. La neutralità di genere comporta distorsioni delle decisioni di pensionamento, limita la redistribuzione e influisce negativamente sul genere verso cui la redistribuzione è mirata. Quando gli individui vivono in coppia, una soluzione ottimale (non distorta) che rispetta la neutralità di genere può essere implementata se essa implica che le lavoratrici vadano in pensione prima dei lavoratori. Altrimenti, la neutralità di genere implica età di pensionamento uguali per uomini e donne e limita la possibilità di compensare gli individui dalla vita più breve (cioè, gli uomini che vivono in coppia). Simulazioni calibrate mostrano che, quando single e coppie coesistono, la neutralità di genere limita sostanzialmente la redistribuzione a favore delle donne single e impedisce del tutto la redistribuzione a favore degli uomini che vivono in coppia.
L’Italia è tra i paesi europei che ancora offrono benefici speciali alle lavoratrici. “Opzione Donna” consente alle donne di andare in pensione un anno prima degli uomini, all’età di 61 anni, con un minimo di 35 anni di contributi (Legge n. 213/2023). L’età minima per il pensionamento diminuisce di un anno per ogni figlio fino a un massimo di due anni. Sono eleggibili le “caregiver”, le donne con disabilità e quelle colpite da licenziamento o impiegate presso imprese in difficoltà.
Il modello studiato dagli autori non considera esplicitamente le attività di cura dei figli e le altre motivazioni del divario di genere nei redditi da lavoro; tuttavia, i risultati suggeriscono che il corrente dibattito politico sulle riforme pensionistiche stia trascurando alcuni fatti importanti: la maggiore aspettativa di vita delle donne e il fatto che gli individui che vivono in coppia condividono le risorse e i consumi. La spontanea redistribuzione che avviene nella coppia beneficia il coniuge con il reddito più basso, ovvero tipicamente la donna.
Finché persistono differenze di genere nei guadagni e nella longevità, politiche “simboliche” come la neutralità di genere sono inefficaci o addirittura dannose. Il sistema pensionistico è solo uno degli strumenti possibili per la redistribuzione. Se la motivazione principale del divario di genere nei redditi da lavoro è la responsabilità (disuguale) della cura dei figli, altri strumenti, come il congedo parentale obbligatorio, i sussidi per l’infanzia e la fornitura pubblica di assistenza all’infanzia possono risultare strumenti più efficaci.