Political competition, tax salience and accountability. Theory and evidence from Italy
Bracco E., Porcelli F., Redoano M., 2019 – European Journal of Political Economy
La concorrenza politica migliora od ostacola la responsabilità politica dei policymakers?
Secondo un numero consistente di studi sia in economia sia in scienze politiche sembra che la concorrenza politica migliori non solo l’efficienza e la trasparenza dei governi ma anche una serie di altri risultati economici desiderabili. Le elezioni sono considerate uno strumento efficace per promuovere la responsabilità politica e per rivelare le preferenze degli elettori ai politici che cercano o ricoprono cariche pubbliche. Si ritiene che questo effetto positivo delle elezioni sia più efficace quanto più la concorrenza elettorale è forte. Di conseguenza, quando i candidati devono affrontare una forte concorrenza politica, gli elettori sono maggiormente in grado di ritenerli responsabili delle scelte politiche attuate; questo, a sua volta, riduce la ricerca di interessi personali dei candidati e li induce a esercitare uno sforzo maggiore nel perseguire gli interessi degli elettori e della comunità.
È questo l’unico modo “giusto” per interpretare questa relazione?
La risposta è no. Emanuele Bracco, Francesco Porcelli e Michela Redoano propongono infatti una storia alternativa: in una recente ricerca, Political competition, tax salience and accountability. Theory and evidence from Italy, pubblicata sul European Journal of Political Economy, sostengono che una maggiore concorrenza elettorale non implichi necessariamente una maggiore responsabilità politica perché quando la competizione elettorale è più forte, i politici potrebbero anche avere maggiori incentivi a ridurre la trasparenza del proprio operato.
Concentrandosi su un aspetto specifico della politica pubblica, la capacità dei governi di finanziare la spesa pubblica tramite molteplici strumenti fiscali, il loro studio esamina il diverso grado di rilevanza delle fonti di gettito disponibili per i comuni. I politici, infatti, possono plasmare la finanza pubblica locale non solo attraverso la definizione del livello di tassazione, ma anche scegliendo il mix fiscale tra gli strumenti disponibili. La nuova interpretazione proposta del meccanismo in gioco è che una più forte concorrenza elettorale potrebbe spingere i responsabili politici in carica a sostituire le tasse più salienti/visibili con quelle meno salienti con effetti dannosi sulla trasparenza della politica fiscale e sulla responsabilità elettorale dei policymakers.
Ma cosa si intende per salienza fiscale? Essa può essere definita come la visibilità di un certo strumento fiscale agli occhi degli elettori o, analogamente, come la consapevolezza degli elettori dei costi associati a specifiche fonti di gettito fiscale del governo. L’intuizione qui è che gli elettori sono generalmente meno propensi a chiedere ai politici di rendere conto del carico fiscale associato a uno strumento meno visibile. Ciò a sua volta implica che i politici adotteranno comportamenti strategici in termini di salienza degli strumenti fiscali utilizzati, facendo più affidamento su fonti di entrate meno visibili quando la concorrenza elettorale sarà più forte.
Per dimostrare questa idea, gli autori sviluppano prima un modello teorico che dimostra che i politici in giurisdizioni più competitive utilizzano strumenti fiscali meno salienti in modo più intenso. Esso verifica e affina le intuizioni riguardo a questa relazione inversa concentrandosi sul comportamento di un politico locale in carica (un sindaco), che è responsabile della fornitura di un bene pubblico locale e ha il potere di prendere decisioni in merito al suo finanziamento. Sono disponibili due diversi strumenti politici per la riscossione delle entrate fiscali, ciascuno diverso per il proprio grado di visibilità. Quando si svolgono le elezioni, gli elettori basano le loro decisioni sia su basi economiche sia ideologiche. Di conseguenza, i sindaci che fronteggiano una maggiore concorrenza elettorale sceglieranno di fare relativamente più affidamento su fonti di entrate meno salienti per ridurre il “costo elettorale” complessivo della raccolta di fondi in termini di una eventuale riduzione di voti. D’altra parte, i sindaci che devono affrontare una concorrenza elettorale moderata avranno meno incentivi a nascondere le loro fonti di entrate agli elettori e faranno relativamente più affidamento su fonti di entrate più salienti.
Nella seconda parte dello studio, gli autori testano empiricamente le conclusioni del modello, concentrandosi sull’esperienza italiana grazie a un ampio dataset a livello comunale comprensivo di dati finanziari, censuari e dati elettorali delle elezioni comunali dal 1999 al 2008. L’attenzione si concentra sui comuni con una popolazione di oltre 15.000 residenti, che cumulativamente rappresentano oltre il 60 per cento della popolazione italiana.
I comuni italiani traggono le loro principali entrate fiscali da un’imposta sulla proprietà (denominata ICI), ma fanno anche molto affidamento su una serie complessa di altre fonti di gettito, come le tasse sulla gestione dei rifiuti, l’addizionale comunale sull’Imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e una vasta gamma di altre entrate tributarie minori ed extra-tributarie (tariffe).
In generale, le tasse sulla proprietà sono considerate un’imposta altamente saliente mentre altri strumenti fiscali sono molto meno visibili agli occhi del pubblico. Questo è dovuto al fatto che i contribuenti spesso percepiscono questa tassa come un onere ingiusto su una necessità, ossia la casa in cui vivono. Ciò che ignorano è che la tassazione delle proprietà non è solo ampiamente riconosciuta come uno degli strumenti fiscali più efficienti a disposizione dei governi per raccogliere fondi in quanto meno distorsivi, anche in termini di riduzione del PIL pro capite di lungo periodo.
Gli elettori dunque percepiscono il ruolo che il sindaco svolge nella definizione di tasse “visibili”, ma spesso non capiscono quanta influenza e libertà egli o ella abbia nel fissare il mix di tali tasse e oneri governativi.
L’analisi empirica inizia distinguendo le fonti di gettito nelle mani dei policymakers in strumenti più o meno salienti. In particolare, le fonti di reddito incluse nell’analisi sono suddivise in due categorie: le entrate da imposte includono da un lato l’imposta sugli immobili (ICI), la tassa sullo smaltimento dei rifiuti (TARSU/TIA) e l’addizionale comunale sull’IRPEF e il supplemento energia elettrica, mentre dall’altro dai proventi da tributi minori (come ad esempio i diritti di segreteria per l’emissione dei certificati, o la tassa per l’occupazione di suolo pubblico ecc.) e tariffe (mense scolastiche, trasporto pubblico ecc.). Per ciascuno di essi, gli autori indagano l’interazione tra la popolarità dei sindaci e le tipologie di fonti di finanziamento utilizzate e scoprono che la probabilità di rielezione di un sindaco dipende (negativamente) dall’entità dell’imposta sulla proprietà, lo strumento fiscale più saliente, ma non sulle altre fonti di entrate, tariffe e altri tributi minori, le meno salienti.
Dopo aver distinto gli strumenti fiscali secondo la loro visibilità, gli autori testano le conclusioni principali del modello teorico, guardando al legame tra competizione elettorale e le scelte di tax mix. Controllando per una vasta gamma di canali alternativi, caratteristiche ideologiche del sindaco e degli elettori e tecniche di stima, emerge un risultato principale coerente e significativo: una diminuzione dell’1% del margine di vittoria (cioè, la differenza nelle percentuali di voto) tra il sindaco eletto e il suo sfidante generano un calo di 0,53 euro nel gettito fiscale pro-capite proveniente da ICI (tassa sugli immobili) e un contestuale aumento dei ricavi da canoni per “servizi locali” di 0,66 euro pro-capite. In altre parole, i sindaci che hanno vinto con un margine di vittoria più ristretto, segno di una concorrenza elettorale più agguerrita, hanno maggiori probabilità di aumentare la percentuale di entrate provenienti da tributi minori e tariffe, rispetto alle tasse. Analogamente, i sindaci che hanno vinto con un margine più ampio hanno meno probabilità di ricorrere tributi minori e tariffe. Questo comportamento non è influenzato dall’affiliazione politica del sindaco. Coerentemente con l’ipotesi iniziale, anche i cicli elettorali svolgono un ruolo importante nel determinare le decisioni riguardanti la fissazione del mix di strumenti fiscali da utilizzare. Inoltre, la sostituzione tra entrate più salienti e altre tributi minori e tariffe avviene principalmente negli anni prossimi alle elezioni. In altre parole, l’effetto è più forte quando si avvicinano le elezioni e quando i candidati si preparano ad affrontare una maggiore concorrenza politica.
In conclusione, questo studio mira ad arricchire la nostra comprensione dell’interazione tra incentivi elettorali e responsabilità politica. In generale, le elezioni sono comunemente viste come una forza positiva che migliora la selezione politica e disciplina il comportamento dei politici. Tuttavia, il presente articolo sfida questa interpretazione fornendo una forte evidenza empirica alternativa. Ogni volta che i responsabili politici possono scegliere tra una serie di strumenti fiscali con vari gradi di salienza, useranno lo strumento meno saliente quando la loro elezione è a maggior rischio o quando gli elettori sono più sensibili alle decisioni politiche nel periodo pre-elettorale. Questo indebolisce l’argomentazione a favore del ruolo positivo che giocherebbero le elezioni nel mantenere i politici responsabili nei confronti degli elettori indicando la necessità di ulteriori approfondimenti teorici ed empirici.